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CAPITOLO DECIMOSESTO 225

e chi dovea vegliare dopo essi pestava inutilmente i piedi.

Comunque la sia, io partii da Mantova di miglior umore che non mi sarei immaginato. La mia borsa affatto smilza (figuratevi se i mille ducati avean poco sofferto della lunga dimora mia e dell’Aglaura a Milano), la mia borsa, e insieme una certa modestia soldatesca non mi permisero che un biroccino fino a Bologna; uno di quei veicoli che danno al paziente alcuna delle illusioni di chi siede in carrozza, con tutti gli incommodi di chi trotta sopra un cavallo da mugnajo. Le carrettelle del Vicentino e dell’alto Vicentino non ci avevano nulla a che fare; somigliavano gondole a paraggio di questi frulloni. Or dunque arrivai a Bologna coi nervi tutti offesi e accavalcati; fu per istirarmeli che mi accinsi pedestre al passaggio dell’Appennino. Oh qual viaggio incantevole! oh che scene di paradiso!... Credo che se fossi stato proprio felice di dentro, avrei detto anch’io al Signore come san Pietro: “Vi prego, piantiamo qui i nostri padiglioni”. Ho poi udito dire che ci domini troppo il vento in quegli ingroppamenti di montagne; ma allora, benchè ridesse appena lievemente la primavera, era tuttavia una pace, un tepore, una ricchezza di colori e di forme in quel cantoncino di mondo, che ben si accorgeva di essere sulla strada di Firenze e di Roma. Giunto poi a Pratolino, donde l’occhio divalla sulla sottoposta Toscana, il mio entusiasmo non conobbe misura; e credo che, se avessi conosciuto i piedi e gli accenti, avrei improvvisato un cantico sul fare di quello di Mosè. Quanto sei bella, quanto sei grande, o patria mia, in ogni tua parte!... A cercarti cogli occhi, materia inanimata, sulle spiagge portuose dei mari, nel verde interminabile delle pianure, nell’ondeggiare fresco e boscoso dei colli, tra le sommità azzurrine degli Appennini e le candidissime dell’Alpi, sei dappertutto un sorriso, una fatalità, un incanto!... A cercarti, spirito e