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capitolo decimosesto. 219

— Non mi comprendete, Carlo! — soggiunse Spiro. — Or bene, mi comprenderete ora! Aglaura non è mia sorella; essa è figliuola di vostra madre; voi siete suo fratello!... —

Allora un lampo subitaneo rischiarò il bujo dei miei pensieri, ma stava appunto per domandare spiegazioni di questo straordinario viluppo, quando l’Aglaura, avendo udito quelle parole pronunciate a voce alta da Spiro, si precipitò nella stanza e addirittura nelle mie braccia, piangendo di consolazione.

— Lo sentiva — diceva ella — lo sentiva e non osava pensarlo! —

Smarrito, confuso, non sapendo che cosa credere, ma commosso fin nel profondo del cuore, io stringeva sul mio seno la faccia lagrimosa dell’Aglaura. Avrei chiesto dopo schiarimenti e prove; intanto godeva il supremo conforto di trovare un’anima sorella, in quel mondo dove io m’aggirava desolato come un orfano. Spiro ci contemplava con un muto raccoglimento, che lo dimostrava insieme e compagno della nostra gioia, e pentito delle sue furie. Come poi ci riebbimo da quel dolce e tenerissimo sfogo, egli ci narrò che mia madre avea mandato l’Aglaura al padre suo dall’ospedale, ove l’avea partorita ed era morta pochi giorni dopo. Mio padre avuta contezza di ciò, avea scritto da Costantinopoli all’Apostulos ch’egli s’incaricherebbe a suo tempo della bambina, come figliuola che la era di sua moglie; ma che la tenesse intanto per sua, onde ella non avesse a vergognare della sua nascita. — Chi avrebbe sospettato tanto amore, tanta delicatezza in mio padre? — Io ne lo benedissi con tutta l’anima; e pensai che spesso fra i sassi più ruvidi e greggi s’asconde il diamante. Spiro raccontò poi le tronche parole di sua madre, dalla quale avea indovinato il mistero della nascita d’Aglaura già prima di partire per la Grecia. Tornando coi sogni di quei quindici