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14 le confessioni d’un ottuagenario.

berar Venezia dai Francesi che le sembravano il male più grosso.

Per Venezia infatti, se non il più grosso erano certo il male più nuovo ed imminente. Le altre disgrazie già incancrenite non davano più sentore di sè. Quella era la piaga viva e sanguinosa che si dilatava nello Stato, facendone rifluire al cuore gli umori guasti e stagnanti. Ogni giorno recava l’annunzio d’una nuova defezione, d’un nuovo tradimento, d’un’altra ribellione. Il Doge si scomponeva il corno sul capo anche nelle grandi cerimonie, i Savi perdevano la testa e commettevano al Nobile di Parigi che comperasse da qualche portiere i segreti del Direttorio. Tentarono anche di giungere al cuore di Buonaparte per una lunga trafila d’amici, di cui il primo capo era un banchiere francese stabilito a Venezia, e pagato perciò, credo, alcune migliaia di ducati. Figuratevi che puntelli da sostenere un governo pericolante! — La storia della Repubblica di Venezia si trovò nel caso eguale degli spettacoli comici d’inverno; una tragedia non basta ad occupare le ore troppo lunghe; ci vuole dopo la farsa. E la farsa ci fu, ma non tutta da ridere. Molti giovinastri, non per liberalità d’opinione ma per ruzzata da bravi, si perdevano a far la satira di que’ parrucconi senza cervello; come succede a tutti i grandi diventati piccoli, a tutti i potenti ridotti inetti che s’hanno subito addosso le maledizioni, il danno e le beffe. I libelli, i versacci, le cantafere che andarono attorno a que’ giorni, servirono lungo tempo dappoi a incartocciar sardelle; ma sembra impossibile il merito che allor si faceva agli autori di quelle sconcie e vili parodie. Giulio Del Ponte, letteratuzzo sparvierato, non gli parve vero d’impiegare il proprio ingegno a sì alta usura, e si mescolò per bene in tali pettegolezzi. Egli godeva di vedersi segnato a dito; e bisogna anche dire che le sue composizioni si stoglievano dalle solite; e taluna non mancava nè di forza,