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si aspettava che l’assenso del generale in capo francese, per partire a quella volta. Io mi trovava in un bell’imbroglio. L’Aglaura voleva partirsi con me, giacchè il viaggio di Roma s’accordava alle sue idee; io nè voleva rifiutarmi, nè esporla ai pericoli d’una lunghissima marcia in stagione disastrosa come quella. Scriveva perciò a Venezia; non rispondevano. La Pisana stessa mi teneva allo scuro di sue novelle da un pezzo. Quella spedizione di Roma mi si presentava sotto auspici tristissimi. Tuttavia sperava sempre dall’oggi in domani; e mentre il Carafa tempestava per quel benedetto assenso sempre ritardato, io me ne confortava, come d’un maggior campo che ancora mi rimaneva a qualche vaga speranza. I miei tre amici, con parte della legione Lombarda, erano già calati verso Roma. Restavo proprio solo, e non avevo altra compagnia che quella dello splendido capitano Alessandro.

Il peggio si era che, venuta da Venezia o da Milano, il fatto sta che la voce s’era sparsa della mia convivenza con una bella greca: ed erano continue le bajate sopra di ciò dei miei commilitoni. Immaginatene qual consolazione, col bel costrutto che io ne cavava! — Vi assicuro che avrei dato una mano, come Muzio Scevola, perchè il signor Emilio si stancasse della contessa milanese, e venisse a riprendersi l’Aglaura. Non ch’ella mi pesasse molto, chè anzi mi ci era avvezzato, e la mi faceva da governante con una pazienza mirabile, ma mi seccava di aver l’apparenza d’una felicità, che in fatto apparteneva ad un altro. Mi fu svagamento a tali fastidii l’amicizia rappiccata col Foscolo, reduce da qualche tempo a Milano. La sua focosa e convulsa eloquenza mi ammaliava, lo udii per più di due ore bestemmiare e sparlare di tutto, dei Veneziani, dei Francesi, dei Tedeschi, dei re, dei democratici, dei cisalpini, e gridava sempre alla tirannia, alla licenza; vedeva fuori di sè gli eccessi della propria anima. Pure Milano di allora gli