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chio; da non confondersi per altro coll’occhio cattivo, anzi pessimo del fu Cancelliere di Fratta.

— E chi è questa Fenice? — gli chiesi.

— Lo vedrai, e se non ti va a sangue mi faccio sbattezzare. —

In queste parole mi tirò fuori del caffè, e giù a passo sforzato fino oltre al Naviglio di Porta Nuova, verso i bastioni. Entrammo in una vasta casa, dove il cortile era pieno affollato di cavalli, di stallieri, di scozzoni, di selle, di bardature, come in una caserma di cavalleria. Per la scala era un su e giù di soldati, di sergenti, d’ordinanze, come al palazzo del Quartier Generale. Nell’anticamera altri soldati, altre armi disposte a trofeo o gettate a fasci nei cantoni: v’era anche ammassato in un canto un piccolo magazzino di tuniche, di tracolle e di scarponi soldateschi.

— Che è? pensava io; — forse l’Arsenale?... —

Lucilio tirava diritto senza scomporsi, come persona di casa. Infatti senza neppur farsi annunziare nell’ultima anticamera da una specie d’ajutante che stava là contando i travi, schiuse la porta ed entrò tenendomi per mano dinanzi allo strano padrone di quel ginnasio militare.

Era un giovine alto, di trent’anni all’incirca, un vero tipo di venturiero, il ritratto animato d’uno di quegli Orsini, di quei Colonna, di quei Medici, la cui vita fu una serie continua di battaglie, di saccheggi, di duelli, di prigionie. Si chiamava invece Ettore Carafa; nobilissimo nome fatto più illustre dall’indipendenza di chi lo portava, dal suo amore per la libertà e per la patria. Per le sue trame repubblicane aveva egli sofferto lunga carcerazione nel famoso castel Sant’Elmo; indi fuggitone, s’era ricoverato a Roma, e di là a Milano a formarvi a proprie spese una legione per liberar Napoli. Aveva uno di quegli animi che uniti o soli vogliono fare ad ogni costo; e questa magnanimità gli respirava dignitosamente nella grand’aria del