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mia fortuna. Insomma sussurrava tanto quel disperatello di Amilcare, che io temeva ogni poco di veder l’Aglaura al balcone. Quando Dio volle Lucilio li persuase d’andarsene, e potei salire dalla giovinetta e confortarla della sua penosa solitudine. Le porsi la lettera, e la vidi sospirare e quasi piangere nel leggerla, ma faceva forza a non lasciarsi vedere.

— Se è lecito chi vi scrive? — le chiesi.

Mi rispose ch’era Spiro suo fratello. Ma schivò frettolosamente tutte le altre domande che le indirizzai, e solamente mi comunicò ch’egli s’era apposto benissimo, e che la credeva a Milano in mia compagnia. Com’era dunque che non veniva a raggiungerla con quel grande affetto che le aveva? — Ecco quello che non seppe chiarire; ma lo chiarii in seguito quando seppi che Spiro era stato sostenuto in carcere come manutengolo della mia fuga. Appunto quella lettera usciva dalla prigione e perciò l’Aglaura se n’era intenerita. Mi chiese ella poi se io pure avessi ricevuto lettere da Venezia, e rispostole che sì, me ne domandò notizia. Io senz’altro le porsi la lettera di suo padre, e quella ove la Pisana raccontava i rimescolamenti di Venezia. Lesse tutto senza batter ciglio; solamente quando giunse al punto ove erano nominati Raimondo Venchieredo e la Doretta, ella diè un piccolo guizzo di sorpresa, e ripetè fra sè come per accertarsene quel nome di Doretta.

— Che è? — diss’io.

— Ah nulla! gli è che io pure conosco questa signora così di riverbero; e mi maravigliai di trovarne il nome in una lettera indirizzata a voi. Se avessi pensato che il Venchieredo è delle vostre parti, non mi sarei stupita tanto.

— E come conoscete i Venchieredo voi?

— Li conosco, oh bella, perchè li conosco!.... Anzi no, voglio dirvelo. Erano essi in qualche corrispondenza, d’interessi suppongo, con Emilio.