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capitolo decimoquinto. 191

vano ordine di riaccompagnargli tosto la colpevole. Solo transigeva in favor mio: e se vedeva che l’aberrazione della ragazza potesse guarirsi meglio a Milano che a Venezia, adoperassi secondo le circostanze. — Queste ultime parole erano sottosegnate, ma io non ne capii affatto il recondito significato. Pensai di chiederne lo schiarimento all’Aglaura, se con esse forse non si alludesse ad un matrimonio col signor Emilio; ma non intendeva allora la ragione di parlarne con tanto mistero. Era certo un curioso destino il mio di esser creduto da ciascuna parte il confidente dell’altra; e tutti mi parlavano a cenni, a mezze parole, dalle quali non ci capiva più che sull’arabo. Del resto, di mio padre nessuna nuova ancora; ma non se ne speravano fino al Natale, e le notizie generali di Levante erano buone.

Con tutto questo viluppo di pensieri, di novità, d’imbrogli, di misteri pel capo, mi fermai ad un caffè a chiedere ove fosse la caserma della Legione Cisalpina. Mi risposero a Santa Vicenzina, due passi dalla Piazza d’Armi. Io ne sapeva con ciò meno di prima; ma a forza di domandare, di voltare, di ridomandare e di camminare ancora, giunsi ove desiderava. La disciplina non era molto esemplare in quella caserma; si entrava e si usciva come in un porto-franco. La confusione, il rumore e il disordine non potevano esser maggiori. I capi attendevano a pavoneggiarsi nella loro nuova assisa, e a farsene argomento di conquista sul cuor delle belle, prima di recarle in campo spavento dei nemici. I subalterni ed i minimi litigavano sempre fra loro, perchè ai primi sembrava dovere essere primi per ragione di grado; e i secondi del pari per la prammatica repubblicana che tendeva a rialzar gli ultimi. S’avrà un bel che fare, ma questo viluppo dell’uguaglianza e della dipendenza stenteremo ad accomodarlo; massime tra noi, dove non v’è capo d’oca che non si approprii il famoso Tu regere imperio populos di Virgilio; — «ed un