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capitolo decimoquinto. 181

Nè io nè l’Aglaura avemmo cuore di fermarci in una camera mentre alla luce del sole, alla libera aria del cielo, doveva inaugurarsi poco stante il governo stabile ed italiano della Repubblica Cisalpina. Posto giù il mio fagotto, e senza ch’ella volesse deporre il travestimento virile, ci mescolammo alla gente, contentissimi di essere giunti in tempo di quel solenne e memorabile spettacolo. Arrivati al luogo dove l’Arcivescovo benediceva le bandiere fra l’altare di Dio e quello della patria, in mezzo ad un popolo innumerevole e fremente, dinanzi all’autorità popolare del nuovo governo, e alla gloriosa tutela di Bonaparte che assisteva in un seggio speciale, confesso anch’io che tutti gli scrupoli m’uscirono dal capo. Quella era proprio la vita d’un popolo, e fossero stati Francesi o Turchi a risvegliarla, non ci trovavo nulla a ridire. Quei volti, quei petti, quelle grida erano piene di entusiasmo e di fausti e grandi presagi: quella subita concordia di molte provincie, divelte da varia soggezione straniera per comporre una sola indipendenza, una sola libertà, era incentivo alle immaginazioni di maggiori speranze. Quando il Serbelloni, Presidente del nuovo Direttorio, giurò per la memoria di Curzio, di Catone e di Scevola, che manterrebbe se fosse d’uopo colla vita il Direttorio, la costituzione, le leggi, que’ grandi nomi romani s’intonavano perfettamente alla solennità del momento. Se ne ride ora che sappiamo il futuro di quel passato; ma allora la fiducia era immensa; le virtù repubblicane e la operosa libertà del Medio-Evo parevano cosa da poco; si riappiccavano arditamente alla gran larva scongiurata da Cesare. Fra quel carnovale della libertà la mente mi corse talora a Venezia, e sentiva inumidirmisi gli occhi; ma l’imponenza presente scacciava la memoria lontana. I manifesti e le dicerie di quel giorno furono così tanto pregne, che le lusinghe lasciate travedere dal Villetard ai Veneziani non parevano nè bugiarde nè fallaci. I Veneziani che assi-