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160 le confessioni d'un ottuagenario.

quando Spiro e suo padre furono tornati. Per garbo d’ospitalità, essi l’avevano collocata nel posto vicino al mio. Io non ci capiva nulla di quella manovra; mi trascinai bene o male fino al letto che mi fu assegnato, e dormii tanto porcellescamente che mi si sentiva russare. Ma alla mattina quando mi svegliarono fu un altro paio di maniche! Alla tempesta era succeduta la calma, allo sbalordimento il dolore. Fino allora avea prolungato ostinatamente le mie speranze, come il tisico, ma alla fine dava di cozzo nella brutta necessità; nè ritrarsi nè sperare valeva più. Non potrei nemmen dire che ebbi la forza di uscire dal letto, di vestire i miei nuovi arnesi alla greca, e di congedarmi dai miei ospiti. In questo movimento il mio corpo non si prestava che colla sciocca ubbidienza d’un automa, e quanto all’anima, io potea credere d’averla lasciata nel vino di Cipro. Spiro m’accompagnò alla Riva del Carbone donde partiva allora la corriera di Padova; mi promise che le notizie di mio padre mi sarebbero puntualmente comunicate, e mi lasciò con una stretta di mano. Io stetti lì sul ponte a guardare Venezia, a contemplare mestamante le cupe acque del Canal Grande, dove i palazzi degli ammiragli e dei dogi sembravano specchiarsi quasi desiderosi dell’abisso. Sentiva di dentro un laceramento come dei visceri che mi fossero strappati; indi rimasi immobile, smarrito, privo affatto di vita come chi si trova di fronte ad una sventura che finirà solo colla morte. Non mi accorsi della partenza della barca; eravamo già al largo sulla laguna, che io vedeva ancora il palazzo Foscari e il ponte di Rialto. Ma quando si giunse alla dogana, e ci fu data la voce di fermarsi con un accento che non era certo veneziano, allora uscii a un tratto da quelle angoscie fantastiche, per rientrare nella stretta d’un vero e profondo dolore! Allora tutte le sventure della mia patria mi si schierarono dinanzi mescolate alle mie, e tutte una per una mi ficcarono dentro nel cuore il loro coltello!