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capitolo decimoquarto. 159

l’occhio. Io risposi a tutto di sì, e venni ad un altro argomento, a quello dei denari. Coi sette ducati che aveva in tasca non potea già sognarmi di giungere a Milano; mi occorreva proprio una sommetta; e siccome anche i frutti anticipati d’un anno non mi bastavano, e d’altra parte qualche mezzo di sussistenza voleva lasciarlo alla Pisana, così proposi al Greco che mi pagasse mille ducati, e del restante capitale contasse d’anno in anno gl’interessi nelle mani della nobile contessina Pisana di Fratta, dama Navagero. Il greco ne fu contentissimo: stesi la ricevuta e la procura in regola, e avvisai la Pisana con una lettera di queste mie provvidenze, includendole anche una carta colla quale l’investiva dell’usufrutto della mia casa. Non si sapeva mai quanto potessi restarmane assente, e il meglio si era provvedere per un pezzo; nè io temeva che la Pisana si sarebbe tenuta offesa di queste mie prestazioni, perchè il nostro amore non era di quelli che si credono avviliti per simili minuzzaglie. Chi ne ha ne dia; è la regola generale per tutto il prossimo: figuratevi poi tra due amanti, che più che prossimo devono esser tra loro una cosa sola! Or dunque dato che avemmo ordine a questi negozii, si pensò a mettere in grado il mio stomaco di sostenere le fatiche del primo giorno d’esigilo. Era già sera, io non avea preso da ventiquattr’ore null’altro che un caffè, pure non avea più fame che se mi fossi alzato allor allora da un banchetto di nozze. Cosa volete? Sulla mensa v’erano a destra ed a sinistra de’ gran bottiglioni di Cipro, io mi fidai a quelli, e mentre gli altri mangiavano e m’incoraggiavano a mangiare, mi diedi a bere per la disperazione.

Bevetti tanto che non intesi più nulla dei gran discorsi che mi tennero dopo cena; soltanto mi parve che rimasto un momento solo colle donne, l’Aglaura mi sussurrasse qualche parola all’orecchio, e che seguitasse poi a premermi il ginocchio, e ad urtarmi il piede sotto la tavola,