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156 le confessioni d'un ottuagenario.

rendo padre Pendola, decise di farsi un merito presso il governo, col dipingermi per un pericoloso macchinatore appiattato a Venezia, e disposto a Dio sa qual colpo disperato. La mia convivenza con quella furiosa eroina, che avea fatto parlar tanto il volgo e gli sfaccendati, aggiungeva nerbo all’accusa. Infatti una bella mattina che sorseggiava tranquillamente il caffè, pensando alla maniera di prolungar più che fosse possibile l’utilissimo servizio di sette od otto ducati che mi rimanevano, sentii un furioso scampanellare alla porta, e poi una confusione di voci che gridavano, rispondevano, s’incrociavano dalla finestra alla calle, e dalla calle alla finestra. Mentre porgeva l’orecchio a quel fracasso, udii un grande strepito, come d’una porta sgangherata a forza; e poi successe un secondo colpo più forte del primo, e un gridare e un tempestare che non finiva più. Stavamo appunto io e la Pisana per uscire ad osservare che cosa succedeva, quando la nostra zingara si precipitò nella stanza col naso insanguinato, la veste tutta a brandelli, e un’enorme paletta da fuoco in mano. Era quella che mio padre adoperava per fare i profumi, secondo l’usanza di Costantinopoli.

— Signor padrone, — gridava ella, sfiatata pel gran correre — ne ho fatto prigioniero uno che è di là chiuso in cucina colla faccia spiattellata come una torta... ma fuori ne sono altri dodici... Si salvi chi può... Vengono per arrestarlo... dicono che l’è un reo di Stato...

La Pisana non la lasciò continuare; corse a chiudere la porta, e adocchiando la finestra che dava sul canale, cominciò a dirmi che badassi a me, a scappare, a salvarmi, che questo urgeva più di tutto. Io non sapeva che fare, e un salto dalla finestra mi parve la maniera più comoda di cavarmela. Pensare e fare fu ad un punto; mi buttai fuori senza guardar prima nè dove nè come cadessi, persuasissimo che acqua o terra, qualche cosa avrei incontrato. In-