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eterno rimorso. Oh quanta distanza ci corre dal meschino accattonaggio della scusa alla superba indipendenza dell’innocenza! Con quante bugie non fui io costretto a nascondere agli occhi degli altri quella mia felicità clandestina e codarda! No, io non sarò mai indulgente verso di me nè d’un momento solo di smemorataggine, quando l’onore ci comanda di ricordarsi robustamente e sempre. La Pisana, poveretta, pianse assai, quando vide da ultimo che tutti i suoi sforzi per rendermi felice non riuscivano ad altro che a interrompere con qualche lampo di spensieratezza un malcontento, che sempre cresceva e mi faceva vergogna di me stesso. Oh, perché non si volse ella a me con quell’amore inspirato e robusto che avea sgomentato l’animetta galante di Ascanio Minato? Perché invece di domandarmi baci, carezze, piaceri, non m’impose ella qualche grande sacrifizio, qualche impresa disperata e sublime? — Sarei morto da eroe, mentre vissi da vile. — Pur troppo i sentimenti nostri ubbidiscono ad una legge, che li guida sempre per quella strada ove sono incamminati da principio. Quella bizzarra passione per l’ufficiale d’Ajaccio, nata più che da amore da rabbia, e nudrita dai maschi pensieri che guardavano alla rovina della patria e al pericolo della libertà, fu in procinto di diventar grande pel santo ardore che la infiammava. L’amor mio, antico di molti anni, ricco di sentimenti e di memorie, ma sprovveduto affatto di pensiero, era dannato a poltrire su quel letto di voluttà che l’aveva veduto nascere. Io sentiva la vergogna di non poter ispirare alla Pisana quello che le aveva ispirato un vagheggino di dozzina; scoperto il peccato originale dell’amor nostro, m’era impossibile goderne così pienamente com’ella avrebbe voluto.

Tuttavia le giornate passavano, brevi, ignare, deliranti: io non ci vedeva scampo da uscirne, e non ne sentiva nè la volontà nè il coraggio. Avrei bensì potuto tentare sulla