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capitolo decimoprimo. | 7 |
registro; anzi vi ribadì sopra come uomo incaponito nella propria opinione, che il danaro sia la cosa meglio apprezzata ed apprezzabile. Io invece, dei pochi ducati che aveva in tasca, ne avrei data la metà al primo accattone che me li chiedesse; e forse la pensava così, perchè ne aveva sempre avuti pochi. La povertà mi fu maestra di generosità; ed i suoi precetti mi giovarono anche quando io non l’ebbi più per aja e per compagna. Peraltro ebbi campo indi a poco a rilevare che mio padre non era uno spilorcio. Egli mi trasse quel giorno alle migliori botteghe, perchè vi provvedessi da raffazzonarmi come il più compito damerino di San Marco. Indi mi condusse alla mia stanza che aveva una porta libera sulla scala, e mi lasciò colla promessa ch’egli avrebbe fatto di me il secondo capostipite della famiglia Altoviti.
— I nostri antenati furono tra i fondatori di Venezia, — mi diss’egli prima di partire; — venivano da Aquileja, ed erano Romani della stirpe Metella. Ora che Venezia tende a rifarsi, bisogna che un Altovito ci ponga le mani. Lascia fare a me! —
Il signor padre sbruffava in tali parole tutta la boria proverbiale della povera nobiltà di Torcello; ma le doble levantine s’adoperarono tanto, che il mio diritto all’iscrizione nel libro d’oro fu riconosciuto immantinente, ed io comparvi per la prima volta come patrizio votante al Maggior Consiglio nella seduta del 2 aprile 1797. Quanto a lui egli non voleva immischiarsene; pareva non si tenesse degno di porsi in cima al rinnovamento del casato, e che stesse contento di fornirmene i mezzi. Quei pochi giorni vissuti signorilmente a Venezia, e per mezzo della contessa di Fratta e degli eccellentissimi Frumier nelle migliori conversazioni, mi avevano fruttato una fama straordinaria. Non ero spiacevole di figura, le mie maniere si toglievano dalle solite leziosaggini, la coltura non mancava affatto, ma