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Dai Frumier passai a cercare degli Apostulos, perché la solitudine mi spingeva sulla strada delle deliberazioni, ed io non aveva questa gran voglia di deliberare. Là io trovai abbastanza da perdere un paio d’ore; scommetto di più che non mi sarei figurato giammai di perderle con tanto piacere. Il vecchio banchiere greco stava ancora nello studio; d’intorno ad una bragiera alla spagnuola sedevano la sua vecchia moglie, una vera figura matronale con un bel paio d’occhiali sul naso, e il leggendario dei santi aperto sui ginocchi; una vaga fanciulla vestita di bruni colori, tutta leggiadra, tutta greca dalle radici dei capelli fino ai petulanti coturni mainotti, e questa ricamava un paramento da altare: finalmente il simpatico Spiro che si guardava le unghie. Questi due ultimi balzarono in piedi alla mia venuta, e la vecchia mi guardò dignitosamente di sopra agli occhiali. Qui il giovane mi presentò, secondo il convenevole, alla signora madre, e a sua sorella Aglaura, ed io entrai quarto nel colloquio. Una conversazione di greci non ci starebbe senza quattro dita di pipa; a me ne offersero una che andava fuori della stanza, e siccome dopo il mio accasamento a Venezia ci aveva studiato sopra anche a quest’arte importantissima del vivere moderno, così me la cavai senza sfigurare. Avevo però tutt’altra voglia che di fumo, e la distrazione mi mandò a traverso dei polmoni parecchie boccate.

— Che vi pare di Venezia? cosa avete fatto di bello quest’oggi? — mi domandò Spiro per intavolare il discorso in qualche maniera.

— Venezia mi pare un sepolcro dove ci frugano i becchini per ispogliare un cadavere; — gli risposi io. — E per dirgli quello che avea fatto gli narrai d’un mio amico che era morto, e degli ultimi dolorosi ufficii ch’io avea dovuto prestargli.

— Ne ho udito parlare in piazza, — soggiunse Spiro,