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capitolo decimoquarto. | 5 |
sero nessuna lingua di questo mondo, e potrebbe darsi che i diavoli favellassero come loro nelle escursioni terrestri. Il signor padre depose il cappello a tre corni, si tirò sulle orecchie un berrettone moresco, accese la pipa, si fece versare il caffè, e volle che sedessi come lui, incrocicchiando le gambe sopra un tappeto. Ecco un futuro patrizio del Maggior Consiglio, occupato a compitare il galateo di Bagdad. Mi disse che era grato a sua moglie, di avergli essa lasciato una sì bella eredità come io era, in compenso forse delle poche delizie procacciategli col matrimonio; mi lasciò travedere che egli chiudeva un occhio sopra alcuni rancidi sospetti, che aveano guastato la loro concordia e ricondotto mia madre a Venezia; finì col confessare che io gli somigliava, massime negli occhi e nell’apertura delle narici; tanto bastava per ricongiungerlo d’un affetto immortale al suo figliuolo unigenito. Io lo ringraziai a mia volta di così benigni sentimenti a mio riguardo; lo pregai di scusarmi dove trovasse difettiva la mia educazione, per la condizione di orfano nella quale era vissuto; ma volli aprirgli gli occhi sulla maniera poco onorevole della protezione accordatami dagli zii fino alla sua venuta; e col modesto contegno m’accaparrai, credo, la sua stima fin da quel primo colloquio. Egli mi osservava colla coda dell’occhio, e quanto sembrava poco attento alle parole, tanto notava in me tutti gli altri segni, dai quali per lunga esperienza aveva imparato a conoscere gli uomini.
Ebbi dal suo criterio una sentenza piuttosto favorevole. Almeno così dovetti inferire dal maggiore affetto dimostratomi in seguito. Indi volle ch’io gli narrassi della contessina Clara, come si era fatta monaca; e mi nominò sovente il dottor Lucilio col massimo segno di rispetto, maravigliandosi come la famiglia di Fratta non si tenesse onorata di imparentarsi con lui. L’ugualità mussulmana temperava in lui l’aristocrazia naturale; almeno lo credetti,