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capitolo decimoterzo. 113

l’indole di mia madre. Ahimè! perchè non posso io parlarne più a lungo?.... Perchè l’amore di figlio non ebbe nella mia vita che un barlume lontano di confuse memorie ove posarsi? Tale è la sorte degli orfani. Ad ottant’anni dura ancora il rammarico di non poter contemplare nel memore pensiero l’immagine della madre. Le labbra, che non ricordano il sapore de’ suoi baci, inaridiscono più presto al fiato maligno dell’aria mondana. «Marito mio! (così cominciava lo scritto ov’ella prendeva commiato da mio padre per sempre) Io volli amarvi, io volli fidarmi a voi, io volli seguirvi fino in capo al mondo contro l’opinione de’ miei parenti, i quali mi vi dipingevano come un birbante senza cuore e senza cervello. Ho avuto ragione o torto? Lo saprà la vostra coscienza. Io per me so che non debbo sopportare più a lungo sospetti che mi disonorano, e che la creatura di cui ho già fecondo il grembo non deve imporsi per forza ad un padre che la rifiuta. Io fui una donna frivola e vanitosa; l’amor vostro mi fece pagar cari questi miei difetti. Io mi rassegno di buon grado a fame una più ampia penitenza. In tutta me non ho che venti ducati; farò il possibile di tornare a Venezia ove troverò per giunta la vergogna e il disprezzo. Ma consegnata la creatura ai suoi parenti, che non avranno cuore di respingerla. Dio faccia pure di me quello che vuole! Voi starete assente otto giorni ancora; tornando non mi troverete più. Di questo sono sicura. Ogni altra cosa sta nelle mani di Dio!»

La lettera portava la data di Bagdad. Da Bagdad a Venezia, per quattromila miglia di deserto e di mare, in una stagione soffocante, con poca conoscenza della lingua, colla persona affranta dall’inedia e dalla passione, rividi col pensiero la povera mia madre. Partiva con venti ducati in tasca dalla casa d’un marito sospettoso e brutale; s’avviava, attraverso un viaggio pieno di pericoli e di fatiche,