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avesse fermato a Venezia. Così ci separammo, a quanto parve, amici in fin d’allora con tutta l’anima.

Pranzai quel giorno, v’immaginerete con quanta voglia, in una bettolaccia, ove facchini e gondolieri litigavano sullo sgombero dei Francesi e l’entrata dei Tedeschi. Ebbi campo di compiangere la sorte d’un popolo, che da quattordici secoli di libertà non avea tratto nè un lume di criterio, nè la coscienza del proprio essere. Ciò avveniva forse, perchè quella non era libertà vera; e avvezzi alla oligarchia non vedevano motivo da schifare l’arbitrio soldatesco e l’impero di fuori. Per loro era tutt’uno; tutto serviva; discutevano sull’umore del padrone, sul salario, e null’altro. Qualche voce meno interessata stonava troppo in quel concerto, e avevano perfin paura di ascoltarla, tanto gli aveva usati bene l’Inquisizione di Stato. Quando io penso alla Venezia d’allora, mi maraviglio che una sola generazione abbia potuto mutarla di tanto, e benedico o le insperate consolazioni della Provvidenza, o i misteriosi e subitanei ripieghi dell’umana natura.

Passato per casa mia, me ne cacciò tosto la mestizia e la paura della solitudine; mi ricordo che piansi a dirotto trovando sul tappeto la pipa di mio padre ancora piena di cenere. Pensai che tutto finiva così; e mi entrò in cuore un involontario sospetto che quello fosse un pronostico. In tali disposizioni d’animo il povero Leopardo mi attirava a sè con forza irresistibile; infatti il resto della giornata lo passai vicino al letto dove i pietosi vicini lo avevano adagiato. La portinaia mi disse che la vedova di quel signore se n’era ita colle sue robe, lasciando otto ducati per le spese del funerale; e avea detto prima di partire, che non le reggeva il cuore di restar un’ora di più sotto lo stesso tetto colle spoglie inanimate di colui che tanto ell’aveva amato.

— Peraltro, — soggiunse la portinaia, — la signora