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capitolo decimoterzo. | 97 |
si ricorderà di me in sul grave punto, e passerà nell’altro mondo tremante, spaventato, come chi si sente nelle polpe le unghiate del diavolo! Buona notte, padre; sull’alba io dormirò più tranquillo di lei!
II padre Pendola se l’era già battuta facendo un gesto di raccapriccio e di compassione; scommetto che giù per la scala aggiunse molti altri gesti di sommo piacere per averla scapolata così a buon mercato. Leopardo non pensò più a lui, e mi pregò immantinente ch’io n’andassi per un altro confessore. Infatti lo affidai per poco alla portinaia, e uscii e scampanellai tanto all’uscio del parroco, che mi venne fatto di staccarlo di letto e di condurlo dal moribondo. Questi, durante la mia assenza, avea peggiorato tanto, che vedendolo in altro luogo avrei stentato a riconoscerlo. Pure l’arrivo del parroco lo confortò alquanto e per poco li lasciai soli; e rientrando lo trovai bensì alle prese coll’ultima stretta dell’agonia, ma ancora più sereno del solito.
— Dunque, figliuolo mio, siete proprio pentito del gravissimo peccato che avete commesso? — gli ripetè il confessore. — Consentite con me che avete disperato della Provvidenza, che avete voluto distruggere a forza l’opera di Dio, che ad una creatura non è concesso l’erigersi a giudice delle disposizioni divine?
— Sì, sì, padre; — rispose Leopardo con un lieve sapore d’ironia ch’egli non potè reprimere, e che io solo forse distinsi, poichè egli stesso, il moribondo, non se ne accorgeva.
— E avete fatto quant’era in poter vostro per impedire gli effetti del vostro delitto? — domandò ancora il parroco.
— Bisogna rassegnarsi, — soggiunse con un filo di voce l’agonizzante; — non era più tempo.... Padre, due grani di sublimato sono uno speditivo troppo potente!...