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capitolo secondo. 69

infame scrittura, e me ne amministrava poi una terza dose per la pochissima attenzione prestata al suo indice nel leggere l’Abbecedario. Mi sovviene che mi accadeva sovente di perder gli occhi in certi librini rossi che stavano dietro i cristalli d’uno scaffale, ed allora invece di compitar la linea seguente saltava sempre alla riga del V. — Vi a va, vi e ve, vi o vo.... A questo punto era interrotto dalla terza correzione accennata in addietro, e non ho mai potuto sapere la ragione della preferenza che dimostrava la mia memoria per la lettera V, se non era forse per esser quella lettera una delle ultime. Gli sbadigli, le tirate di pelle o di naso, e i versacci che io faceva durante quelle lezioni, mi son sempre restate in mente come un segno della mia mala creanza, e dell’esemplare pazienza del Piovano. S’io dovessi insegnar a leggere ad un porcellino come allora ero io, son sicuro che nelle due prime lezioni gli caverei le due orecchie. Io invece non ebbi altro incomodo, che quello di riportarle a casa alcun poco allungate. Ma questo incomodo che continuò e s’accrebbe per quattro anni, dai sei ai dieci, mi procurò peraltro il vantaggio di poter leggere tutti i caratteri stampati, e di scrivere anche abbastanza correntemente, purchè non ci entrassero le maiuscole. Lo sparagno che feci poi in tutta la mia vita di punti e di virgole, lo devo tutto all’istruzione andante e liberale dell’ottimo Piovano. Anche ora tirando giù questa mia storia ho dovuto raccomandarmi per la punteggiatura ad un mio amico, scrittore della Pretura, altrimenti ella sarebbe da capo a fondo un solo periodo, e non sarebbe voce di predicatore capace di rilevarlo.

Quando tornava a Fratta e non mi perdeva dietro i fossi in caccia di sposi o di salamandre, giungeva proprio sul punto che la famiglia si metteva a tavola. Il tinello era diviso dalla cucina per un corritojo lungo ed oscuro che saliva un pajo di braccia: tantochè il locale era abbastanza