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capitolo secondo. 57

sotto il tiglio della parrocchia, quando vedeva spuntar sotto l’androne la cuffietta bianca della signora zia. Mi attento di chiamarla zia, ora poveretta che la è morta da un mezzo secolo; poichè per allora, appena fui in grado di pronunciar parola, m’insegnarono per suo comando a chiamarla la signora contessa e così seguitai sempre dopo, rimanendo per tanto accordo dimenticata la nostra parentela. Fu in quel tempo che diventando io grandicello e non garbando alla contessa, vedermi sempre sul ponte, pensarono affidarmi a quel tal Fulgenzio sagrestano, del quale io feci sempre quel conto che voi sapete. Credeva la castellana disavvezzarmi così dalla sua Pisana immischiandomi coi fanciulletti del Santese; ma quell’istinto di contraddizione, che è anche nei fanciulli, contro coloro che comandano a rovescio di ragione, mi faceva anzi star attaccato più che mai alla mia estrosa damina. Gli è vero che andando poi innanzi, e trovandosi in due non abbastanza numerosi pei nostri giochi, tirammo entro a far lega tutta la ragazzaglia all’intorno, con grande scandalo delle cameriere, che per paura della padrona ci portavano via la Pisana non appena se ne accorgevano. Questa però non si lasciava sbigottire; e siccome tanto la Faustina che la Rosa avevano via il capo dietro i loro belli, non le mancava agio di tornar loro a scappare per rimescolarsi con noi. Cresciuta la banda, era cresciuta in lei di pari passo l’ambizioncella di tener cattedra; e siccome l’era una fanciulletta, come dissi, troppo svegliata, e le piaceva far la donnetta, cominciarono gli amoretti, le gelosie, le nozze, i divorzi, i rappaciamenti; cose tutte da raggazzi s’intende, ma che pur dinotavano la qualità della sua indole. Anche non voglio dire che ci fosse poi tutta questa innocenza che si crederebbe; e mi maraviglio come la si lasciasse, la contessina, ruzzolar nel fieno e accavallarsi con questo e con quello; sposandosi per burla e facendo le viste di dormir