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56 le confessioni d’un ottuagenario.

mato l’anima di una triplice corazza contro ogni malinconia. Passato ch’egli era agli stipendi dei castellani di Fratta come capo-sgherri, avea preso su il costume di dir Rosari, ch’era il distintivo principale de’ suoi nuovi satelliti; e così avea finito di purgarsi del vecchio lievito. Allora poi che i settant’anni sonati gli aveano procacciato la giubilazione colla custodia del portone, e la sopraintendenza delle ore, credeva fermamente che la via da lui battuta fosse proprio quella che conduce al Papato. Fra Martino e lui si può credere che non erano sempre della stessa opinione. Il primo nato fatto per fare il Cappa Nera d’un patrizio di Rialto; il secondo educato a tutte le birberie ed i soprusi dei Zaffi d’allora; quello cameriere diplomatico d’un giurisdicente incipriato; questi lancia spezzata del più prepotente castellano della Bassa. E quando fra loro sorgeva qualche disputa, se la prendevano con me, e ciascuno voleva togliermi all’avversario vantando maggiori diritti sulla mia persona. Ma più spesso andavano d’accordo con tacita tolleranza, ed allora godevano in comune dei progressi che vedevano fare alle mie gambette, e accosciati un di qua e un di là sul ponte del castello, mi facevano trottolare dalle braccia dell’uno a quelle dell’altro. Quando la contessa, uscendo col Piovano di Teglie a qualche visita di Portogruaro o alla passeggiata del dopopranzo, li sorprendeva in questi esercizi di pedagogia, volgeva loro una per parte due occhiate da scomunica; e se io le dava tra le gambe non mancava mai di favorirmi fin d’allora quella tale squassatina nella coppa. Io poi strillando e tremando di spavento, mi rifugiava tra le braccia di Martino, e la contessa tirava oltre brontolando delle fanciullaggini di quei due vecchi matti, che per tali erano conosciuti i miei due mentori presso la gente di cucina. — Comunque la sia, per opera dei due vecchi matti io divenni saldo sulle gambe, e capace anche di scappar ben lontano fin