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494 | le confessioni d’un ottuagenario. |
Intanto io deggio confessare che, quanto a me, la dimora di Fratta non mi pareva più nè così tranquilla, nè così degna come un mese prima. I Francesi mi frullavano pel capo; sognava di diventare qualche cosa d’importanza; questa mi sembrava la miglior via per racquistare l’amore della Pisana. Pensava sempre a Venezia, alla caduta di San Marco, al nuovo ordinamento che ne sarebbe sorto, alla libertà, alla uguaglianza dei popoli. Quel tal general Bonaparte di poco era più attempato di me. Perchè non poteva anch’io mutarmi di sbalzo in un vincitore di battaglie, in un salvatore di popoli? L’ambizione mi adescava a braccetto dell’amore: e non sentiva più quel pietoso rispetto per la dolorosa passione di Giulio Del Ponte. Trascurava le faccende di cancelleria, e il più del mio tempo lo perdeva a dottrineggiare di politica con Donato, o a lottare di scherma o al tiro al bersaglio con Bruto Provedoni. Bruto era il più infervorato dei giovani fratelli per la causa della libertà e spesso la Bradamante e l’Aquilina ce ne davano la baja. Esse aveano veduto i Francesi senza concepirne per verità la favorevole opinione che ne avevamo concepita noi, e noi dal canto nostro andavamo in collera, quando esse per divertirci da questo incantesimo, ci tornavano a mente alcune delle nefandità commesse da quei propagatori dell’incivilimento. Soprattutto lo strazio della vecchia contessa di Fratta non voleva udirlo nominare. Sentiva che avevano ragione, ma non voleva concederlo; e per questo inveleniva a tre doppi. Non so come avrei finito se le cose andavano per la solita strada; ma la fortuna s’intromise a farla vincere a me, coi miei grilli d’ambizione e di superbia.
Un bel giorno (eravamo agli ultimi di marzo) mi capita da Venezia una lettera della signora contessa. Leggo e rileggo la sottoscrizione. Non c’è caso, l’è proprio lei. Mi reca sommo stupore ch’ella mi scriva, e più ancora che la incominci in capo a pagina con un caro nipote. Fui