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492 le confessioni d’un ottuagenario.

— Ah! si rade anche la barba? io invece avrei creduto che la portasse lunga.

— A proposito, — saltò su Monsignore — dopo la morte della mamma (un lungo sospiro) non mi son più raso nè il mento nè la chierica. Faustina, dico, (anche costei era tornata) mettete su la cocoma dell’acqua!... —

Così sentiva i proprii dolori e le pubbliche miserie monsignor Orlando di Fratta. Son io a dirlo che le bestie si mostrarono le più sensibili fra tutti gli abitanti del castello in quella congiuntura: non eccettuato me medesimo, che un tardo e vano pentimento non varrà certo a purgare dall’odiosa smemorataggine di quella tremenda giornata. Non contando il ronzino di Marchetto, che lasciò il tafferuglio per tornarsene a casa come doveva far io, ci fu il cane del capitano, il vecchio Marocco, che sdegnò di accompagnarsi al padrone nella sua fuga verso Lugugnana. Ed egli rimase vagante pel deserto castello, fiutando qua e là come in cerca d’un’anima migliore della sua; ma non gli venne fatto di trovarla, e un francesino scapestrato si divertì a forarlo parte a parte colla bajonetta nel bel mezzo del cortile. Reduce a casa quella frotta di vigliacchi restò tanto attonita e confusa, che non sentirono neppure il puzzo di quella carogna che appestava l’aria da tre giorni. Toccò accorgermene a me tornato che fui da Udine; e allora diedi ordine a un contadino perchè fosse gettata in qualche fogna. Ma il contadino uscito per questa pia opera mi chiamò indi a poco, acciocchè contemplassi anch’io una cosa meravigliosa. Sul cadavere già verminoso di Marocco aveva preso stanza il gattone soriano suo compagno di tanti anni, e non c’era verso di poternelo snidare. Carezze, minacce e strappate non valsero, tantochè me ne impietosii, e presi anche in qualche venerazione quel povero morto, che avea saputo destare in un gatto una sì profonda amicizia. Lo feci staccare a forza; e comandai che Marocco fosse seppellito