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capitolo decimo. 489

— Cittadino generale — risposi con un inchino lievissimo, per non offendere la sua repubblicana modestia; — le cose di cui vengo a parlarvi sono della massima importanza e della maggiore delicatezza.

— Parlate pure, — egli soggiunse accennando il cameriere che continuava l’opera sua. — Mercier non ne sa d’italiano più che il mio cavallo.

— Allora — ripresi — mi spiegherò con tutta l’ingenuità d’un uomo, che si affida alla giustizia di chi combatte appunto per la giustizia e per la libertà. Un orrendo delitto fu commesso tre giorni sono al castello di Fratta da alcuni bersaglieri francesi. Mentre il grosso della loro schiera saccheggiava arbitrariamente i pubblici granaj e l’erario di Portogruaro, alcuni sbandati invasero una onorevole casa signorile, e svillaneggiarono e straziarono tanto una vecchia signora inferma più che centenaria, rimasta sola in quella casa, che ella ne morì di disperazione e di crepacuore. —

— Ecco come la serenissima Signoria inacerbisce i miei soldati! — gridò il generale balzando in piedi, poichè il cameriere avea finito di sciacquargli il mento. — Si predica al popolo che sono assassini, che sono eretici; al loro comparire tutti fuggono, tutti abbandonano le case. Come volete che simili accoglienze predispongano gli animi all’umanità e alla moderazione?... Ve lo dico io; bisognerà che mi volga indietro a pulirmi la strada da questi insetti molesti. —

— Cittadino generale, capisco anch’io che la fama bugiarda può aver impedito la cordialità dei primi accoglimenti; ma vi è una maniera di smentir questa fama, mi pare, e se con un esempio luminoso di giustizia.... —

— E sì, parlatemi proprio di giustizia, oggi che siamo alla vigilia d’una battaglia campale sull’Isonzo!... La giustizia bisognava che fosse fatta a noi fin da due o tre anni