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capitolo decimo. 467

che quell’aura di popolarità mi scompigliò il cervello, e ci presi un gusto matto a vedermi seguito e festeggiato da tante persone, nessuna delle quali conosceva me, come io non conosceva loro. Lo ripeto, il mio cavallo ci ebbe un gran merito, e fors’anco il bell’abito turchino di cui ero vestito; la gente, checchè se ne dica, va pazza delle splendide livree, e a tutti quegli uomini sbracciati e cenciosi parve d’aver guadagnato un terno al lotto, col trovare un caporione così bene in arnese, e per giunta anche a cavallo. Fra quel contadiname riottoso che guardava di sbieco l’albero della libertà, e pareva disposto ad accoglier male i suoi coltivatori, v’avea taluno della giurisdizione di Fratta che mi conosceva per la mia imparzialità, e pel mio amore della giustizia. Costoro credettero certo che io m’intromettessi ad accomodar tutto per lo meglio, e si misero a gridare:

— Gli è il nostro Cancelliere! — Gli è il signor Carlino! — Viva il nostro Cancelliere! — Viva il signor Carlino! — La folla dei veri turbolenti, cui non parea vero di accomunarsi in un uguale entusiasmo con quella gentaglia sospettosa e quasi nimica, trovò di suo grado se non il cancelliere almeno il signor Carlino; ed eccoli allora a gridar tutti insieme: — Viva il signor Carlino! — Largo al signor Carlino! — Parli il signor Carlino! —

Quanto al ringraziarli di quegli ossequi e all’andar innanzi io me la cavava ottimamente; ma in punto a parlare affè che non avrei saputo che cosa dire: fortuna che il gran fracasso me ne dispensava. Ma vi fu lo sciagurato che cominciò a zittire, a intimar silenzio; e a pregare che si fermassero ad ascoltarmi, chè dall’alto del mio ronzino, e inspirato dal mio bell’abito prometteva di esser per narrare loro delle bellissime cose. Infatti si fermano i primi; i secondi non possono andar innanzi; gli ultimi domandano, cos’è stato? — È il signor Carlino che vuol parlare! — Si-