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lano applaudito, festeggiato da quelli che il Botta chiama utopisti italiani. In giugno stretta Mantova d’assedio, avea già in sua mano la sorte di tutta Italia; dappertutto era un supplicar d’alleanze, un chieder di tregue; Venezia ancor deliberante quando era tempo d’aver già fatto, s’appigliò per l’ultima volta alla neutralità disarmata. Il generale francese se ne prevalse a sua comodità. Scorrazzò, invase, taglieggiò provincie, città, castelli. Ruppe due eserciti di Wurmser e d’Alvinzi sul Garda, sul Brenta, sull’Adige; un terzo di Provera presso a Mantova e nel febbraio del 97 la fortezza si arrende. A Fratta si dubitava ancora; ma a Venezia tremavano davvero; quasi quasi s’aveva udito a San Marco il tuonar dei cannoni; non era più tempo da ciarle. Pur seguitavano a sperare e a credere che come eran vissuti, così sarebbero scampati per sorte, per accidente, secondo la celebre espressione del doge Renier. La contessa peraltro in mezzo a quei subbugli non si vedeva tranquilla; neppur le pareva buon partito rifugiarsi in terraferma quando tutti partivano per ricoverarsi a Venezia. I Frumier vi erano già tornati con gran rammarico della eletta società di Portogruaro; la contessa adunque scrisse a suo figlio che avrebbe adoperato ottimamente di recarsi egli pure presso di lei, giacchè un uomo in famiglia era una gran malleveria, e gli raccomandava di portar seco quanto più danaro poteva per ogni emergenza. Il conte Rinaldo giunse a Venezia quando appunto la guerra napoleonica rumoreggiava alle porte del Friuli, e persuadeva al capitano Sandracca che il giovine generale côrso non era nè un essere ipotetico nè un nome romanzesco inventato dal Direttorio. Il capitano tanto più temette reale e presente il generale di Francia, quanto più lo avea schernito lontano e imaginario. Tutto ad un tratto si sparge la nuova che l’arciduca Carlo scende al Tagliamento con un nuovo esercito, che i Francesi gli vengono addosso, che sarà un massacro,