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nasale del solito. La Pisana se ne disperò ai primi giorni più ch’io non avessi creduto possibile: ma poi tutto ad un tratto ne parve smemorata. E quando vennero i Frumier a prenderla e ad avvertirla che la volontà di sua madre la richiamava a Venezia, parve che tutto dimenticasse, per la grandissima gioja di cambiar la noja di Fratta coi divertimenti della capitale. Ella partì quindici giorni dopo; e soltanto nell’accomiatarsi, parve che il dolore di doversi separare da me soverchiasse la contentezza di correre a una vita nuova, piena di splendide lusinghe. Io le fui grato di quel dolore, e dell’averlo essa lasciato travedere senza alcuna superbia. Conobbi ancora una volta che il suo cuore non era cattivo; mi rassegnai e rimasi.

La mia presenza a Fratta era proprio necessaria. Narrare la confusione che vi avvenne dopo la morte del conte, sarebbe discorso troppo lungo. Usuraj, creditori, rivendicatori calavano da ogni parte. I beni messi all’asta, le derrate sequestrate, i livelli ipotecati; fu un vero saccheggio. Il fattore se la svignò dopo aver abbruciati i registri; restai io solo povero pulcino ad arrabattarmi in quella matassa. Per soprassello le istruzioni mi mancavano affatto, e da Venezia capitavano solamente continue ed affamate richieste di danaro. I Frumier mi erano di pochissimo aiuto; e poi il padre Pendola credo ci soffiasse sotto contro di me, e mi guardavano allora piuttosto in cagnesco. Io peraltro risolsi di rispondere coi fatti: e sudai, e lavorai, e m’adoperai tanto, sempre col pensiero in testa di giovare alla Pisana e di esser utile a chi bene o male mi aveva allevato, che quando il contino Rinaldo capitò a prender le redini del governo, gli ottomila ducati di dote delle contessine erano assicurati, i creditori pagati o acchetati, le entrate correvano libere, e i poderi diminuiti di qualche appezzamento in qua ed in là continuavano a formare un bel patrimonio. I guasti c’erano ancora pur troppo, ma di tal