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le confessioni d’un ottuagenario. |
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Ora che ci par d’essere avvezzi al pericolo, e pericolo non c’è, verrà il pericolo vero e ci troverà assopiti e sprovveduti. Dio ce la mandi buona, ma alla meglio non ci faremo la miglior figura!» — Io mi accostava all’opinione di Giulio tanto più che Lucilio mi avea scritto da Venezia, che sperassi bene, chè mai la sorte del mio amico non era stata più vicina a un propizio rivolgimento. Ma la sua invece, la sorte del povero dottorino, subì a que’ giorni un grave tracollo. La Clara fu relegata finalmente al convento di Santa Teresa; e a Fratta se n’ebbe la novella quando la contessa scrisse perchè le mandassero i danari della dote: ella diceva di essersi intanto impegnata con un usurajo, ma che non si voleva udir a parlare di termini troppo lunghi con que’ torbidi che c’erano allora. Il conte sospirò molto e molto; ma raccolse anco una volta i danari richiesti e li mandò alla moglie; io mi accorgeva pur troppo che la famiglia correva alla rovina, e dovea limitarmi a stagnare qualche goccia della botte, lasciando poi che lo spillone gettasse a piena gola perchè da quel lato non potea rimediare. Al conte non mi arrischiava, al canonico era inutile, al fattore dannoso il mover parola: e la Pisana cui ne accennai qualche volta mi rispondeva squassando le spalle, che alla mamma non si potea comandare, che le cose erano sempre ite così, e che già lei non se ne dava fastidio, chè avrebbe vissuto in una maniera o nell’altra. La tristarella pareva essersi corretta di molto dalle sue bizzarrie. Senza mostrarsi nè adirata nè contenta del mio riserbo mi trattava con bastevole confidenza; e a Giulio poi faceva sempre buon viso, benchè si vedesse che non era nella solita smania de’ suoi innamoramenti. La maggior parte della giornata la passava in camera della nonna, e pareva si fosse presa l’assunto di farle dimenticare la lontananza della sorella maggiore; ma la povera vecchia omai affatto imbecillita, non era neppure più in grado di esserle riconoscente