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432 le confessioni d’un ottuagenario.

tentezza gli rabbelliva le guancie d’una fiamma rosea e vivace, gli rendeva snella e leggiera la persona, facile e colorita la parola. Vedeva tutto bello, tutto buono, tutto incantevole; ognuno gli faceva festa, perchè lo spettacolo d’una gran felicità racconsola gli uomini, colla fiducia di poterla anch’essi un giorno o l’altro raggiungere. La Pisana era tutta per lui; tremava e abbassava gli occhi a’ suoi sguardi, sorrideva al suono della sua voce, lo seguiva in ogni movimento. Come io l’aveva veduta ragazzina per Lucilio, tale la vedeva allora già donzella per Raimondo; lo stesso turbamento, la stessa veemenza non trattenuta nè da pudore, nè da paura, e un incanto di voluttà cresciuto a mille tanti nel pieno splendore della sua bellezza di diciott’anni. Io l’amava allora per me, la odiava per lo spietato martirio cui ella condannava il povero Giulio, la disprezzava per la sua perfida idolatria a un giovinastro frivolo e scostumato com’era il Venchieredo. Non so quale smania mi sentissi in cuore di calpestarla, di svillaneggiarla: insuperbiva fra me di amarla ancora, e di poter dire tuttavia, che l’avrei ceduta ad un altro per salvargli la vita! Ella invece procedeva innanzi cieca come il carnefice. Cieca! Ecco la sua scusa: credo ch’ella non vedesse nulla, non s’accorgesse di nulla. Le sue passioni furono sempre così eccessive, che le vietarono di discernere alcuna cosa fuori di loro. A veder l’anima straziata di Giulio dibattersi in un corpo smunto e consumato per lottare ancora, per difendersi fino alla morte, contro il facile e sereno predominio di Raimondo, venivano proprio agli occhi le lagrime. Il fuoco delle pupille, lo splendore dello spirito che un tempo gli trapelava dal volto era scomparso; con ciò ogni sua bellezza s’era spenta, perch’egli non ne aveva altra: fino la maestà del pallore pareva insozzata dalle macchie brune e verdastre di cui la chiazzava il sangue corrotto dalla bile. Pareva un malato di pellagra, e la