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capitolo nono. 431

gno d’amore e di pietà, lusinghiera e provocatrice col Venchieredo, indifferente e beffarda con Giulio. Raimondo aveva dimenticato i rifiuti della Clara, e le lusinghe della Pisana lo riconducevano in casa Frumier, dove forse avea sperato ricattarsi di quelli coll’acquisto di un boccone più ghiotto e desiderato. E lo sfuggirgli di questo, altro non avea fatto che attizzargli viemaggiormente le voglie; poichè la Pisana, pur respingendolo come marito, lo accettava, lo accarezzava in qualità di vagheggino. Il giovine scapestrato, se potea ottenere di contrabbando quello che avea cercato di avere legalmente, si sarebbe tenuto il più furbo e felice degli uomini; e il contegno della Pisana dava piuttosto ansa a questa lusinga. Se aveste veduto qual’era in tali frangenti lo stato compassionevole del povero Giulio, potreste capire come la pietà ammutisse in me perfino l’interesse dell’amore. Cosa quasi incredibile! Io aborriva il Venchieredo non per conto mio, ma per conto di Giulio: io era geloso della Pisana più per lui che per me, e lo spettacolo di quel giovane, pieno d’anima, di cuore, d’ingegno, che si disfaceva dolorosamente pel cancro segreto e inesorabile d’una passione infelice, mi metteva in cuore quasi un rimorso dell’odio che altre volte gli aveva serbato. Vi sembro troppo buono?... Non c’è caso; era fatto così. Quella lunga scuola di abnegazione e di pazienza al fianco della Pisana, mi avea fruttato una pietà quasi eroica a profitto dei miseri. Ne diedi la prova in seguito colla mia condotta, la quale se potrà tacciarsi di sciocca, non potrà mancare di qualche lode per coraggio e per generosità.

Il Venchieredo portava addosso tutto lo sfarzo della felicità. Nel volto, nel gesto, nel vestire, nel parlare si conosceva il giovane contento del fatto suo, che non ha nulla a desiderare, e che non può pensare ad altro che alla propria gioja, tanto essa è grande e potente. La con-