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capitolo nono. | 425 |
di Lucilio; un odio aperto mi quadrava meglio di questa fredda calcolata inimicizia; e il mio amico trevisano la pensava secondo me più dirittamente del dottore di Fossalta. Soltanto mi dimenticava che in questo la gioventù s’era sbollita, e il sentimento s’era impietrito in profonda convinzione.
— Ma parliamo dunque di voi — continuava egli intanto; — voglio credervi che la contessina Clara vi abbia indirizzato a me e non l’avvocato Ormenta. Se così è, vivete tranquillo; il vostro amico Amilcare è più sicuro nella sua prigione che io e voi in piazza. Lo direi anche al collegio dei Savii, il quale se fosse savio avrebbe a cavare il suo pro da questo giudizio. Ve lo ripeto, v’è gente che veglia per lui; e non c’è pericolo che si lascino andare a male giovani così preziosi. Intanto voi cercate di non lasciarvi abbindolare dal padre Pendola. Per carità, Carlino! Eravate un ragazzo di mente e più assai di cuore. Non guastatevi sul più bello. Vi lascio per qualche visita che ho da fare in questa casuccia di poveri diavoli. Cosa volete? l’amor della gente è la paga più bella del medico. Ma se vi fermate a Venezia, cercate di me all’ospedale dove sto sempre fino alle dieci del mattino.
— Grazie, — gli diss’io; — se la mi assicura proprio che Amilcare...
— Sì, vi assicuro che non gli interverrà alcun male. Cosa volete di più?
— Allora la ringrazio; e la riverisco. Io parto quest’oggi stesso.
— Salutatemi il conte, la contessina, i nobiluomini Frumier e mio padre, se lo vedete, — soggiunse Lucilio. — Ohimè! salutatemi anche Fratta e Fossalta! Chi sa se quei solitarii paeselli mi vedranno mai più! —
Mi abbracciò, e mi lasciò, credo, con istima migliore di quando mi aveva incontrato. Certo al ripensarci poi mi