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quel regalo, perchè speravano di sgomentarmi e forse di ripigliarmi. Ma la codardia, grazie al Cielo, non s’apprese mai al mio temperamento. Di quella vicenda toccata al mio amico io ebbi un dolor tale che mi fece odiare tre volte tanto i suoi nemici, e m’infervorò più che mai nelle nostre speranze comuni. Allora poi che dall’avveramento di queste dipendeva la sua salute, la mia impazienza non conobbe più freno.

Solamente il tempo si prese la briga di calmarmi. Ai primi impeti successe una tregua lunga e dubbiosa. Le alleanze continentali si erano rafforzate; la Francia si ristringeva in sè, come la tigre per uno slancio più fiero; ma fuori si credeva ad uno scoramento fatale. La Serenissima patteggiava con tutti, soffriva e barcamenava; gli inquisitori sorridevano fra loro di vedersi dissipare un temporale che aveva fatto tanto fracasso; sorridevano stringendo fra le unghie quei disgraziati che avevano sperato nella grandine e nelle saette, mentre tutto accennava ad un nuovo sereno di bonaccia. Di Amilcare e dei molti altri che lo avevano preceduto o seguito nelle carceri non si parlava più; solamente si mormorava che la legazione francese aveva cura di loro, e che non li avrebbe lasciati sacrificare. Ma se la prossima campagna fosse sfortunata alla Francia? — Io tremava solo a pensarne le conseguenze.

Intanto una mattina mi capitò una lettera suggellata a nero. Il signor conte mi partecipava la morte del suo cancelliere, aggiungendo che in quasi due anni di studio io ne avea potuto imparare abbastanza, che poteva sostenere l’esame quando voleva, e che corressi intanto presso di lui a dirigere la cancelleria. Che cosa provassi alla lettura di quel foglio non ve lo saprei spiegare; ma credo che in fondo fossi contento assai che la necessità mi richiamasse vicino alla Pisana. Senza Amilcare, e senza la speranza di riaverlo presto, Padova mi somigliava una tomba. Le mie