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capitolo nono. 415

in qualche maniera ragione. Ma a’ quei tempi di letargo appena smosso, di annebbiamento intellettuale e di infanzia politica, qual più grande uomo di governo ci avrebbe capito più di me?.....

Io restava adunque col mio amore aereo e affatto sentimentale; come chi s’invaghisse d’una donna veduta in sogno. Ammirava Amilcare, che a quei sogni dava fiduciosamente la saldezza della realtà, ma non poteva imitarlo. Peraltro le vicende di Francia incalzavano; e le grandi novelle di colà, appurate dalla distanza e dall’immaginazione giovanile de’ miei compagni, soccorrevano la mia sfidanza. Mi diedi a sperare, ad aspettare cogli altri; leggeva intanto i filosofi dell’Enciclopedia, e più ancora Rousseau; sopratutto il contratto sociale, e la professione di fede del vicario savojardo. A poco a poco prestai colla mia mente un corpo a quei fantasmi; quando me li vidi innanzi vivi e spiranti, gettai le braccia al collo di Amilcare gridando: — Sì, fratello, oggi lo credo finalmente! Un giorno saremo uomini!..... — L’avvocato Ormenta, che mi vedeva di rado e sempre più taciturno e riguardoso, mi fece spiare da qualcheduno de’ suoi; egli seppe le mie nuove abitudini, la mia amicizia col trevisano, e indovinò il resto. Il mondo non correva a quel tempo secondo i loro desiderii; il pover uomo aveva un bel darsi attorno; capiva che erano formiche incapate tristamente ad arrestare un macigno, e se anche non lo capiva, il fatto sta che era stralunato peggio che mai. Però non volle deporre ogni lusinga; mi accarezzò ugualmente sperando di carpire forse alla mia ingenuità quello che raccoglieva prima dall’ubbidienza. Avvisato da Amilcare io stava sull’intese, e spiava a mia volta la fisonomia dell’avvocato come un barometro del tempo. Quando lo vedeva mogio, umile, annuvolato, correva a far gazzarra coi compagni; e si facevano fra noi allegri brindisi alla libertà, all’eguaglianza, al trionfo della Francia, alla re-