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capitolo primo. 17

tare come avesse toccato dodici ferite alla guerra di Candia, offrendosi ogni volta di calar le brache per farle contare. E Dio sa com’erano queste ferite, poichè ora, ripensandoci sopra, non mi par verosimile che in cinquant’anni che diceva toccar appena, egli avesse assistito ad una guerra combattutasi sessant’anni prima. Forse la memoria lo tradiva, e gli faceva credere sue le gesta di qualche spaccone udite raccontare dai novellatori di piazza S. Marco. Il buon capitano confondeva assai facilmente le date; ma non dimenticava mai ogni primo del mese di farsi pagare dal fattore venti ducati di salario come comandante delle Cernide. Quel giorno era la sua festa. Mandava fuori all’alba due tamburi, i quali fino a mezzogiorno strepitavano ai quattro cantoni della giurisdizione. Poi nel dopopranzo, quando la milizia era raccolta nel cortile del castello, usciva dalla sua stanza così brutto, così brutto che quasi solamente colla presenza sbaragliava il proprio esercito. Impugnava uno spadone così lungo che bastava a regolar il passo d’un’intera colonna. E siccome al minimo sbaglio egli usava batterlo spietatamente su tutte le pancie della prima fila; così quando appena accennasse di sbassarlo, la prima fila indietreggiava sulla seconda, la seconda sulla terza, e nasceva una tal confusione che la minore non sarebbe avvenuta all’avvicinarsi dei Turchi. Il capitano sorrideva di contentezza e rassicurava la truppa rialzando la spada. Allora quei venti o trenta contadini cenciosi, coi loro schioppi attraversati sulle spalle come badili, riprendevano la marcia a suon di tamburo verso il piazzale della parrocchia. Ma siccome il capitano camminava dinanzi colle gambe più lunghe della compagnia, così per quanto questa si affrettasse, egli giungeva sempre solo sul piazzale. Allora si rivolgeva infuriato a tempestare col suo spadone contro quella marmaglia indolente: ma nessuno era così gonzo da aspettarlo. Alcuni se la davano a gambe, altri saltavano i fossati, altri sgusciavano dentro