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e questo, attraversato nel suo amore d’una volta, e vuoto d’ogni altro affetto, mi dava grandissima noia co’ suoi inutili battiti. Alla prima mi era confusamente infervorato all’ardore altrui, ma poi sia che quest’ardore fosse fittizio, sia che in me non avesse trovato materia da alimentarsi, m’era sfreddato talmente che non mi conosceva più per quello d’una volta. Quella continua manovra di passi compassati, d’antiveggenze, d’accorgimenti, di calcoli, si affanno male ad un’anima giovane e bollente. Aspirava a qualche cosa di più vivo, di più grande: capiva ch’io non era fatto per le estasi ascetiche, e ho già narrato in addietro quanto fossi debolino in punto di fede.

Figuratevi quanti sforzi facessi per ringagliardirmi!... Ma l’avvocato Ormenta anzichè aiutarmi a ciò, mi contrariava sempre colle sue mene un po’ troppo mondane. Stava bene che la mèta fosse alta, spirituale e che so io; ma io la perdeva spesso e volentieri di vista. Uno studente trevisano, un certo Amilcare Dossi, s’era stretto a me con molta intrinsichezza; egli aveva un ingegno forte e arditissimo, un cuore poi che oro non bastava a pagarlo. Con lui andavo spesso ragionando di metafisica e di filosofia, perchè io avea dato il capo in quelle nuvole e non sapea più liberarmene; egli poi ci studiava da un pezzo e potea darmi scuola. Dopo qualche giorno m’accorsi che egli era proprio un tipo di coloro, che il padre Pendola definiva avversatori spietati d’ogni idealità e d’ogni nobile entusiasmo. Metteva tutto in dubbio, ragionava su tutto, discuteva tutto. E nonpertanto mi maravigliava di rinvenire in lui un amore di scienza, e un fuoco di carità che mi parevano incompatibili coll’arida freddezza delle sue dottrine. Finii col fargli parte di questa mia maraviglia, ed egli ne rise assaissimo.

— Povero Carlino! — diss’egli — come sei indietro! Ti maravigli ch’io mi sia preso di così violento affetto per