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402 | le confessioni d’un ottuagenario. |
la vita dell’infermo con tardive operazioni. Gli bastava che certe cose non si vedessero e non se ne parlasse, e che non dando così appiglio al raccapriccio degli scrupolosi, anche i vecchi, i rigidi, gli incorruttibili fossero costretti a tacere, a rabbonirsi, a spogliarsi della solita insubordinazione, mantenuta in fin allora col pretesto dell’anarchia e della spensieratezza dei superiori. Ciò appunto non quadrava al piovano di Teglio; ma in quanto a me egli approvava il santo fervore inspiratomi dal segretario, e me ne incaloriva maggiormente colla sua rozza e sincera facondia.
Io arrivai a Padova coll’invasamento di uno che s’appresta a farsi frate per disperazione amorosa. Giuntovi appena, corsi dall’avvocato Ormenta, al quale era già stato scritto dal padre Pendola, e che mi accolse appunto come il guardiano o il provinciale accoglierebbe un novizio. Quel degno avvocato, che m’era sembrato l’anno prima un poco sospettoso, un po’ beffardo, un po’ gelato, mi parve invece allora l’uomo più aperto, soave, e mellifluo della terra. Le sue occhiate andavano e rapivano in estasi; ogni suo gesto era una carezza; ogni parola picchiava proprio al cuore come a casa propria. Di tutto era contento, anzi beato; di sè, del padre Pendola, e sopratutto del prezioso dono che questi gli avea fatto coll’affidargli la mia tutela. Mi parlò di fiducia, di raccoglimento, di pazienza; m’invitò a pranzo per tutti i giorni che avrei voluto, meno il mercoledì nel quale egli usava digiunare, e questo metodo non potea forse convenire al mio stomaco giovanile. Si congratulò con me della mia età freschissima la quale mi dava doppia opportunità di fare il bene: bisognava indagare le massime, le intenzioni de’ miei compagni; consultarne con lui per guardar di correggerle, di indirizzarle a miglior uopo se parevano difettive o fuorviate; avrei servito di canale perchè il senno maturo potesse avvantaggiare della sua esperienza la focosa attività dei giovani. Così ce ne fos-