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capitolo ottavo. 399

essere in un gran tempio, dove lo spirito invisibile di Dio mi empiesse l’anima di gravi e serene meditazioni. Poi i pensieri mi tumultuavano nel capo, come il sangue nelle vene dopo una corsa precipitosa; la mente avea volato troppo, non conosceva più l’aria in cui batteva le ali, il ribrezzo dell’infinito la sgomentava. Mi avvicinai alla ringhiera per guardare nel fiume, e quell’acqua che passava, che passava senza posa, senza differenza alcuna, mi dava l’immagine delle cose mondane che colano fluttuando in un abisso misterioso. I discorsi del padre Pendola facevano allora nella mia memoria l’effetto d’un sogno, che ci ricorda di aver veduto chiaramente e di cui non ci sovveniamo più che con una vaga e scolorita confusione. Mi volsi per cercare il padre; e vidi Giulio e la Pisana che bisbigliavano fra loro. Sentii come Icaro sciogliermisi la cera delle ali e precipitava nelle passioni di prima; ma l’orgoglio mi sorresse. Mi era pur sentito poco prima tanto maggiore di essi; perchè non potea continuare ad esser tale? Guardai coraggiosamente la Pisana, e sorrisi quasi di pietà; ma il cuore mi tremava; oltrechè non credo che quel sorriso mi durasse a lungo sulle labbra.

Allora il padre Pendola, che avea confabulato col senatore, mi si raccostò; e quasi indovinando le titubanze dell’anima mia prese a compatirmi con sì squisita carità, che io mi vergognai d’aver tentennato. Le sue parole erano dolci come il mele, entranti come la musica, pietose come le lagrime: mi commossero, mi persuasero, mi innamorarono. Fermai dentro di me di tentare la prova, d’immolarmi a quei sublimi doveri di cui mi aveva parlato, di essere alla fine padrone di me una volta e di saper dire: — Voglio così! — Soffrirò — pensava frattanto — ma vincerò; e le vittorie crescono le forze, laonde se non altro avrò guadagnato di poter poi soffrire con minore viltà. Per nulla Martino non è risuscitato, per nulla il padre Pendola non ha