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384 le confessioni d’un ottuagenario.

dolori miei mi parlava più chiaramente quello di aver sconosciuto per tanti anni la pratica rettitudine di Martino, di non aver fatto di lui quel conto che meritava, di averlo creduto, in una parola, una macchina cieca e obbediente, mentr’era invece un uomo conscio e rassegnato. Io era divenuto così piccino nella mia propria stima che non mi ravvisava più; la memoria d’un vecchio servitore morto, seppellito e già roso dai vermi mi costringeva ad abbassare il capo, confessando che, con tutto il mio latino, nella vera e grande sapienza della vita era forse più indietro che i villani. Infatti nella loro semplice religione essi definiscono coraggiosamente la vita per una tentazione o una prova. Io non potea definirla altrimenti che colle eguali parole che si adoprerebbero a definire la vegetazione d’una pianta. Aveva un bel piluccarmi le idee, un bel voltare e rivoltare questa matassa di destini, di nascite, di morti e di trasformazioni! Senza un’atmosfera eterna che la circondi, la vita rimane una burla, una risata, un singhiozzo, uno starnuto; l’esistenza momentanea d’un infusorio è perfetta al pari della nostra, coll’ugual ordine di sensazioni che declina dalla nascita alla morte. Senza lo spirito che sorvola, il corpo resta fango e si converte in fango. Virtù e vizio, sapienza e ignoranza sono qualità d’un’argilla diversa, come la durezza o la fragilità, o la radezza o lo spessore. Ed io mi sdraiava comodamente nella metafisica del nulla e del pantano, mentre dall’alto dei cieli la voce d’un vecchio servitore mi cantava le immortali speranze! O Martino, Martino! — sclamai — io non comprendo l’altezza della tua fede, ma gli insegnamenti che ne ritraggo sono così grandi e virtuosi, che soli sarebbero malleveria della sua bontà. Abbiti l’ossequio del tuo indegno figliuolo anche al di là della tomba, o vecchio Martino! Egli ti ha amato in vita, e se non ti diede gran parte della sua stima allora, adesso te la dona tutta, te la dona col fatto accettando cie-