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capitolo ottavo. 383

ti ama perchè sei venuto in questa camera a cercar dalla morte un conforto contro le sue male parole, contro il suo disprezzo. Consolati, Carlino; puoi abbandonarla senza che ella ne pigli una sola febbre. Non sei neppur il capo raro che la ne debba soffrire nell’orgoglio. Se tu fossi il poetico Giulio Del Ponte, o lo sfarzoso castellano di Venchieredo, ne dovresti avere un qualche rimorso, ma tu!... Eh va là! non te ne sei accorto che qui a Fratta tu sei, appetto alla Pisana, come Marchetto, come Fulgenzio, come tutti gli altri, una stazione temporanea nel turno de’ suoi affetti, un accattone che aspetta la sera del sabbato il suo quattrinello d’elemosina. Male, male Carlino; qui non è più questione di doveri verso gli altri, ma di rispetto a te stesso. Sei tu un asino da guardare a terra e da insaccar legnate, o un uomo da tener diritta la fronte e da sfidare il giudizio altrui? Pulisciti i ginocchi, Carlino; e va’ via di qua. Vedi, arrossisci di vergogna; è cattivo segno e buono nello stesso tempo: accenna alla coscienza del male commesso, ma insieme a ribrezzo e a pentimento di quel male. Vattene, Carlino, vattene; cerca una strada più onesta, più sicura, ove siano altri passeggieri cui tu possa dar mano e insegnare la via; non perderti in quei nebulosi confini fra il possibile e l’impossibile, a battagliare colla tua ombra, o coi mulini di don Chisciotte. Se non puoi dimenticar la Pisana, devi fingere di dimenticarla; al resto non pensare, che verrà dopo. Ora sia verso te che verso lei e verso tutti, il tuo dovere è questo. Restando avvilisci te, spazientisci lei, rendi male per bene a’ suoi genitori. Vattene! Carlino, vattene! Pulisciti i ginocchi e vattene! —

Questo consiglio fu il primo frutto del monitorio di Martino; e fui tanto spaventato della sua acerbezza, che senza pescare altri corollari ripiegai la carta, e ripostala nel libro e intascato questo, uscii pallido e pensieroso da quella stanza ov’era entrato livido ed ansante. Fra tutti i