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capitolo ottavo. 381

Martino? E questo era proprio il mio caso; e dietro questa massima più che colle altre mi tornava conto di lambiccare il cervello. Basta! Per allora mi rassegnai a leggerla e a rileggerla se non senza capirla così astrattamente, almeno senza poterne trovare un modo di applicazione alle mie circostanze. E tornai a meditare la prima, la quale ascriveva a qualche nostra mancanza o a qualche cattiva azione la piena infelicità!

— Povero me! — pensai — certo che io ho molte colpe sulla coscienza, perchè mi sento oggi più miseramente infelice che uomo alcuno al mondo non possa essere. —

Sì, ve lo giuro, feci un esame di coscienza così sottile così scrupoloso, che non fu senza merito per essere stato il primo: colla nozione imperfettissima ch’io aveva delle leggi morali, ho paura che ne passassi buona più d’una, ma anche mi rampognai di cose per sè innocentissime; come, per esempio, d’essermi sempre rifiutato a stringere amicizia coi figliuoli di Fulgenzio, e di serbar poca gratitudine alla signora contessa. Il primo peccato lo ascriveva a superbia, ed era antipatia pura e semplice; del secondo accagionava il mio cattivo animo, ma tutta la colpa l’aveva la memoria tenace della mia povera zazzera, tanto ingiustamente martorizzata. Intanto, quello che più importa, non m’illusi punto sul mio peccataccio più grosso, su quello sfrenato amore per la Pisana, il quale mi si scoprì d’un tratto alla coscienza in tutta la sua bestiale selvatichezza. Io aveva amato la Pisana fino da piccino! Ottimamente! Fin da piccino avea sognato con lei un amore da uomo! Cose incompatibili in un ragazzo che ragiona coi piedi! — Giovinetto, e già ragionevole e malizioso oltre il bisogno, avea persistito in quella bizzarria fanciullesca. — Male, signor Carlino! Ecco il primo scappuccio dopo il quale vengono gli altri, come le ventidue lettere dell’alfabeto dopo la prima. La ragione doveva