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376 le confessioni d’un ottuagenario.

per le scale come l’ombra d’un dannato; entrai senza pensarvi in camera della contessa vecchia.

— Guardate se è la Clara! — disse costei alla sua infermiera, perchè gli occhi oramai non le servivano più che per piangere le lagrime senza conforto della vecchiaja.

Io fuggii addolorato e stravolto; corsi fino disopra nel mio covacciolo, ove tutto stava ancora disposto come quando io n’era uscito un anno prima. Di là, dopo una lunga ora, passai nella camera di Martino. La mia devozione e l’incuria degli altri non aveano messo un dito nelle cose lasciate dal vecchio. Per terra giacevano ancora alcuni chiodi avanzati al becchino che lo avea rinchiuso nella cassa; una fiala con non so qual cordiale disseccato e corrotto stava sulla tavola. Sul muro spenzolavano ancora spogliati e polverosi rami di olivo, appesivi da lui nell’ultima domenica delle Palme di sua vita. Mi gettai sopra il letto impresso ancora dalla giacitura del cadavere; là piansi amaramente, evocai la memoria di quel mio primo e si può dir solo amico; lo chiamai a nome mille e mille volte, lo pregai che si ricordasse di me, e che scendesse anima o spettro a consolarmi della sua compagnia. Ma la fede titubava anche in queste invocazioni; io non sperava, io non credeva più. Solamente più tardi, a forza di tormenti e di sforzi, giunsi a rafforzarmi il cuore d’una credenza vaga, confusa, ma pur sicura ed intrepida nelle cose spirituali ed eterne. Allora balbettava sì le orazioni nelle chiese, ma l’anima mia era arida come uno scheletro; la mente cadeva appassita dall’aria greve del mondo; il cuore scoraggiato si appigliava alla speranza del nulla come ad unico rifugio di pace. Questo interno scoraggiamento mi rendeva terribile, ed amava perfin la memoria di quel buon vecchio, che ad onta delle mie disperate invocazioni non avrei più potuto rivedere, e che dormiva nel sepolcro, mentre io mi angosciava nella vita.