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blica francese. Libera e ragionata, una tal deliberazione nulla in sè avrebbe racchiuso di sconsigliato o di vile; poichè, nè legami di famiglia, nè comunanza d’interessi, nè patti giurati, obbligavano la Repubblica a vendicare la prigionia di Luigi XVI: ma la venalità del propotente e il precipitoso assentimento del senato impressero a quell’atto un colore di vero e codardo tradimento.

La nuova, sparsasi indi a poco, dell’uccisione del re, mutò nell’opinione dei governi la stolta arrendevolezza veneziana in pagata complicità; dall’una parte lo sprezzo, dall’altra l’odio accumulavano le loro minaccie. La legazione francese di Venezia accentrava in sè tutte le mene e le speranze dei novatori italiani; essa dava mano ad altri emissarii che istigavano la Porta ottomana contro l’Impero e la Serenissima, per divertir quinci le forze russe e di Germania. Il collegio dei Savii, sempre rinnovato e sempre imbecille, taceva al senato di cotali pericoli; gli usciti trasfondevano negli entranti la stolida sicurezza e la molle indolenza. Duranti da quattordici secoli fra tante rovine di ordini e di imperi, pareva loro impossibile un subito crollo: tale sarebbe un decrepito, che per aver vissuto novant’anni giudicasse non dover più morire. Finalmente nel cader della primavera 1794, dopo che fu violata da Francia l’imbelle neutralità di Genova a danno futuro del Piemonte e di Lombardia, il Pesaro accennò altamente la prossimità del pericolo, e la non lontana emergenza che tra gli imperiali scendenti dal Tirolo al Ducato di Mantova, e i Francesi contrastanti, un conflitto potesse nascere negli Stati di terraferma. Si riscosse pur sonnolento il senato, e contro il parere del Zuliani, del Battaja e di altri conigli più conigli degli altri, decretò che la terraferma si armasse con nuove cerne d’Istria e di Dalmazia, con restauri e artiglierie nelle fortezze. Si salvava non lo Stato, ma il decoro. I Savii d’allora, Zuliani primo, s’incaricarono di per-