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capitolo settimo. 345

la lettera da Venezia, certo qualche cosa di simile. Perciò con mezze parole, con atti del capo e con altri mezzi di suo grado, avea dato ad intendere al Senatore tutto il rovescio di quello ch’era stato. E questi poi, levandosi da tavola, gli avea stretta la mano in modo misterioso, dicendogli:

— Ho capito, padre; la ringrazio a nome dei miei cognati! — Se il senatore era furbo, e ne avea dato grandi prove nella sua lunga vita pubblica e privata, certo fu quello il caso di riscontrar vero il proverbio, che tutti abbiamo durante il giorno il nostro quarto d’ora di minchioneria. Non v’è poi anche ladro così astuto, che non possa essere derubato da uno più astuto di lui.

Finito il colloquio fra i due cognati, e abbruciata diligentemente la lettera fatale, tornarono in sala da pranzo, discorrendo della Clara e della vera fortuna che la si potesse accasare in casa Partistagno. Il Conte aveva qualche scrupolo, perchè tutti i parenti di questo giovane non erano sul buon libro della Serenissima; ma il senatore obiettava che non cadesse in soverchi timori, che erano parenti lontani, e che finalmente il giovine col suo contegno si dimostrava così ossequioso ai magistrati della Repubblica, che gli avrebbe non che altro fatto onore anche da questo lato.

— C’è poi un altro guaio; — soggiungeva il conte; — che per quanto si creda la Clara innamorata di lui ed egli di lei, non si vede mai che si disponga a manifestarsi.

— Per questo ci penserò io; — rispose il senatore. — Quel giovine mi piace, perchè avremmo bisogno di simil gente, devota e rispettosa sì, ma forte e coraggiosa. Lasciatemi fare, egli si manifesterà presto.

Per quel giorno si misero da un canto questi discorsi; e solamente la sera, nel silenzio del letto nuziale, il conte s’arrischiò di accennare alla moglie d’un grave e miste-