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capitolo settimo. | 335 |
e che sarebbe stata felice di terminar la sua vita in quel castello accanto alla nonna. Si ebbe un bel dire e un bel fare: alla nonna, alla mamma, al papà, allo zio monsignore, la Clara ripetè sempre la medesima solfa. Laonde la contessa, per quanto ne arrabbiasse furiosamente dentro di sè, decise di soprastare senza nulla rispondere al Venchieredo, e di dare intanto una voce al padre Pendola, perchè egli colla sua meravigliosa prudenza le additasse un mezzo da convertire la Clara all’obbedienza, senza ricorrere a maniere violente e scandalose. Peraltro, alcunchè di questo ostinato resistere della zitella al desiderio dei suoi trapelava di fuori, e Lucilio pareva non se n’accorgesse, tanto serbava con essa le solite maniere, e il Partistagno compariva alle veglie del castello di Fratta, e alla conversazione di casa Frumier, più sorridente e glorioso che mai. Il padre Pendola, udito il grave caso, si offerse esso stesso a paciere fra la contessa e la nobile donzella; tutti ne concepirono le grandi speranze; e lasciato ch’ei fu a quattr’occhi con essa, alcuno si fermò per curiosità ad origliare dietro l’uscio.
— Contessina, — principiò a dire il reverendo, — che cosa ne dice di questo bel tempo? —
La Clara s’inchinò un po’ confusa per non saper come rispondere; ma il padre stesso la tolse d’impiccio continuando:
— Una stagione come questa non l’abbiamo goduta da un pezzo, e sì che si può dire di essere appena usciti dall’inverno. L’eccellentissimo Senatore mi ha concesso, anzi doveva dire pregato, di andarne a visitare il mio caro alunno, quell’ottimo giovane, quel compito cavaliere ch’ella ben dovrebbe conoscere. Ma così passando ho voluto vedere di loro, e chieder novella delle cose di famiglia.
— Grazie, padre, — balbettò la fanciulla non vedendolo disposto a proseguire.