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capitolo primo. 9

tuna. Il signor conte aspirava allora tant’aria quanta sarebbe bastata a tener vivo Golia per una settimana, e rispondeva che la clemenza di Dio deve mescolarsi alla giustizia dei tribunali, e che egli pure avrebbe perdonato a chi veramente si pentiva. Il cancelliere, forse per modestia, era tanto umile e sdruscito nel suo arnese quanto il principale era splendido e sfarzoso; ma la natura gli consigliava una tale modestia, perchè un corpicciuolo più meschino e magagnato del suo non lo si avrebbe trovato così facilmente. Dicono che si mostrasse guercio per vezzo; ma il fatto sta che pochi guerci aveano come lui il diritto di esser creduti tali. Il suo naso aquilino rincagnato, adunco e camuso tutto in una volta, era un nodo gordiano di più nasi abortiti insieme, e la bocca si spalancava sotto così minacciosa, che quel povero naso si tirava alle volte in su quasi per paura di cadervi entro. Le gambe stivalate di bulgaro divergevano ai due lati per dare la massima solidità possibile ad una persona che pareva dovesse crollare ad ogni buffo di vento. Senza voglia di scherzare io credo, che detratti gli stivali, la parrucca, gli abiti, la spada e il telaio delle ossa, il peso del cancelliere di Fratta non oltrepassasse le venti libbre sottili, contando per quattro libbre abbondanti il gozzo che cercava nascondere sotto un immenso collare bianco inamidato. Così com’era egli aveva la felice illusione di credersi tutt’altro che sgradevole; e di nessuna cosa egli ragionava tanto volentieri come di belle donne e di galanterie.

Come fosse contenta madonna Giustizia di trovarsi nelle sue mani, io non ve lo saprei dire in coscienza. Mi ricordo peraltro di aver veduti più musi arrovesciati che allegri scendere dalla scaletta scoperta della cancelleria. Così anche si buccinava sotto l’atrio, nei giorni d’udienza, che chi aveva buoni pugni e voce altrimenti intonata e zecchini in tasca, facilmente otteneva ragione dinanzi al suo tribu-