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capitolo settimo. 315

e il nuovo castellano dovette forse a lui, se non la salute dell’anima, certo quella del corpo. Infatti la fama, che lo avea dipinto sulle prime come il vero flagello della castità, si tacque improvvisamente; Raimondo ebbe voce di giovine discreto e gentile; gli piaceva sì scherzare, ma non fuori dei limiti; e non si schivava dall’usar cortesia a qualunque genere di persone. Per esempio egli adorava tutti i mariti che avevano mogli giovani e leggiadre; fossero benestanti o mandriani, non fu mai caso che egli usasse loro il benchè minimo malgarbo. Ascoltava pazientemente, le loro filastrocche, li raccomandava al cancelliere, al fattore; e portava loro fino a casa la risposta d’un’istanza esaudita, o d’un conto saldato. Se anche poi il galantuomo si trovava per avventura assente, egli pazientava aspettandolo, e la moglie poi si lodava assaissimo col marito dell’urbanità e della modestia del padrone. In verità il solo padre Pendola sapea fare di tali conversioni; e in tutta la popolazione e nel clero dei dintorni fu una voce generale a proclamarlo una specie di taumaturgo.

La Doretta Provedoni era stata fra le prime ad attirare i pronti omaggi di Raimondo; ma a Leopardo non andavano a’ versi le smancerie del cavaliere, e con grandi strepiti della moglie avea trovato modo di cavarselo dai piedi. A sentire la donna, il signorino usava de’ suoi diritti; erano fratelli di latte, avean giocato insieme da bambini, e non era strano ch’egli le serbasse ancora qualche affettuosa ricordanza. Il vecchio, i fratelli, le cognate, paurosi d’inimicarsi il giurisdicente tenevano per lei, e censuravano Leopardo come un orso geloso ed intrattabile. Ma finchè Raimondo continuò nella sua vita scapestrata, egli aveva ragioni bastevoli da opporre alle loro: e la Doretta rimase col suo grugno senza poterla spuntare. Venne poi il momento della conversione: si cominciò a parlare del miracolo operato dal padre Pendola, e del meraviglioso ravvedimento del giovine