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294 | le confessioni d’un ottuagenario. |
Lucilio tornò a’ suoi discorsi, e la Pisana a sedere vicino alla mamma. Ma il soave turbamento ch’era rimasto nelle sue sembianze continuò a tormentarmi, finchè i servitori uscirono colle guantiere.
— Olà, Carlino! che ci fai qui? — mi disse uno di costoro. — Fammi largo e torna in cucina, chè non è qua il tuo posto.
Tali parole, che pareva dovessero metter il colmo al mio dolore, furono invece come un veleno provvido e gelato che lo calmarono.
— Sì! — dissi fra me con cupa disperazione. — Questo non è il mio posto! — E tornai in cucina barcollando come un ubriaco; e colà stetti cogli occhi fitti nelle bragie del focolare, finchè mi avvertirono che i cavalli erano attaccati e che si stava per partire. Allora ebbi a vedere un’altra volta, lungo la scala, la Pisana che seguiva ostinatamente Lucilio, come un cagnolino tien dietro al padrone. Indifferente a tutto il resto, montò in carrozza guardando sempre lui; e la vidi sporgersi dallo sportello a guardare il posto ch’egli aveva occupato anche dopo che fu partito. Io intanto stava appeso al mio solito posto da quel povero diseredato che era: e quali furono i miei pensieri per tutta quella buona ora che s’impiegò a tornarsene a casa, Dio solo lo sa!... Pensieri forse non erano; bensì delirii, bestemmie, pianti, maledizioni. Quella sottil parete di cuoio che divideva il mio posto dal suo, io sapeva benissimo che cosa mi presagisse pel futuro. Mille volte avea pensato che giorno verrebbe, quando la maledetta forza delle cose umane me la avrebbe tolta per sempre e datala ad un altro; ma ad un altro non desiderato, non amato, appena forse sofferto. E mi era conforto il figurarmela inondata di pianto e pallida di dolore sotto il bianco velo di sposa, andarne all’altare come una vittima; e poi nelle tenebre del talamo nuziale offrirsi fredda, tremante, avvilita, senza amore e senza deside-