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capitolo sesto. 293

perchè la non parlasse e non la ridesse più come il solito, e perchè si mostrasse pensosa e stizzita e amica dei luoghi solitari e della luna.

— Ah traditrice! — gridò con un gemito il mio povero cuore. Sopra un tanto affanno di amore sventurato, sentii crescere e gonfiarsi l’odio come una consolazione. Avrei voluto stringere in mano un fascio di fulmini, per saettarne quella fronte alta e abborrita di Lucilio: avrei voluto che l’anima mia fosse un veleno per penetrare tutti i suoi pori, per dissolvere ogni sua fibra, e tormentare i suoi nervi fino alla morte. Di me non mi importava nè punto nè poco: poichè allora per la prima volta provava l’amarezza della vita; e la odiava quasi al pari di Lucilio, come occasione se non causa ch’essa era d’ogni mio male. Allora mi toccò vedere la vanerella, valendosi dei privilegi dell’età, toglier di mano al servo la tazzina del caffè e presentarla essa stessa al giovine. La fanciulla era rossa come una bragia, aveva gli occhi splendenti più dei rubini, quali io non avea mai veduti; sembrava in quel momento non già una bambina, ma una ragazza piacevole perfetta e quel che peggio innamorata. Quando Lucilio prese la tazza dalla mano di lei, ella traballò sulle ginocchia e si versò sull’abito alcune gocce di caffè; il giovine le sorrise amorevolmente e si abbassò a pulirla col fazzoletto. Oh se l’aveste veduta allora quella fanciulletta appena alta da terra! — Il suo volto aveva l’espressione più voluttuosa che mai scultore greco abbia dato alla statua di Venere o di Leda; una nebbia umida e beata le avvolse le pupille, e la sua personcina s’accasciò con tanta mollezza, che Lucilio dovette circondarla con un braccio per sostenerla. Io mi morsi le mani e le labbra, mi graffiai il petto e le guancie; sentiva nel petto un impeto che mi spingeva a gettarmi rabbiosamente su quello spettacolo odioso, e una forza misteriosa che mi teneva confitti i piedi nel pavimento. Quando Dio volle