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278 | le confessioni d’un ottuagenario. |
stumati se ne ritrassero bentosto; e rimase l’oro purissimo della classe raffinata, dotta, motteggiatrice. Rimasero il canonico di Sant’Andrea, l’avvocato Santelli, altri due o tre curiali, il dottorino Giulio Del Ponte, il professor Dessalli, e qualche altro professore di belle lettere, un certo don Marco Chierini, riputato il tipo più perfetto dell’abate elegante, e tre o quattro conti e marchesi che aveano saputo unire l’amore dei libri a quello delle donne, e lo studio dell’antichità colle costumanze moderne. Anzi giacchè vi son cascato gioverà notare che non si poteva allora esser educati e compiti senza aver su per le dita le costituzioni di Sparta e d’Atene. Le parlate di Licurgo, di Socrate, di Solone e di Leonida erano i temi consueti delle esercitazioni ginnasiali; curiosissima contraddizione in tanta servilità e cecità d’obbedienza, in tanta noncuranza di virtù e di libertà.
Il fatto sta che, mentre le dame ed il resto della comitiva trinciavano mazzi di carte ai tavolini del tresette e del quintiglio, la piccola accademia del senatore si raccoglieva in un angolo del salone a cianciar di politica, e a motteggiare sulle novelle più scandalose della città. Era una musica la più variata, una vera opera semiseria, piena di motivi ridicoli e sublimi, buffi, serii, allegri e maligni; un intralciarsi di contese, di frizzi, di reticenze e di racconti che somigliava un mosaico di parole; vero capo d’opera dell’ingegno veneziano che coll’arte di Benvenuto Cellini sa farsi ammirare perfino nelle minuzie. Si parlava delle cose di Germania e di Francia nella maniera più liberale; si commentavano i viaggi di Pio VI, le mire di Giuseppe II, le intenzioni della Russia, e i movimenti del Turco. Si portavano in mezzo le autorità più disparate di Macchiavelli, di Sallustio, di Cicerone e dell’Aretino; si raffrontavano le vicende d’allora coi capitoli di Tito Livio; e a così gravi ragionamenti non si cessava dall’alternare lo scherzo, e la