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capitolo sesto. 263

addormenta sognando gli abbracciamenti di Romeo; morire colla felicità della speranza e le rosee illusioni della gioia parrà sempre il punto più delizioso della vita. Così nessuno si accorgeva che i lunghi e chiassosi carnovali altro non erano che le pompe funebri della regina del mare. Al 18 febbraio 1788 moriva il doge Paolo Renier; ma la sua morte non si pubblicò fino al dì secondo di marzo, perchè il pubblico lutto non interrompesse i tripudii della settimana grassa. Vergognosa frivolezza dinotante che nessun amore, nessuna fede congiungevano i sudditi al principe, i figliuoli al padre. Viva e muoia a suo grado purchè non turbi l’allegria delle mascherate, e i divertimenti del Ridotto; cotali erano i sentimenti del popolo, e della nobiltà che si rifaceva popolo solo per godere con minori spese, e con più sicurezza. Con l’uguale indifferenza fu eletto doge ai nove di marzo Lodovico Manin: si affrettarono forse, perchè le feste della elezione rompessero le melanconie della quaresima. L’ultimo doge salì il soglio di Dandolo e di Foscari nei giorni del digiuno; ma Venezia ignorava allora qual penitenza le fosse preparata.

Fra tanta spensieratezza, in mezzo ad una sì marcia inettitudine, non avea mancato chi, prevedendo confusamente le necessità dei tempi, richiamasse la mente della Signoria agli opportuni rimedii. Fors’anco i rimedi proposti non furono nè opportuni nè pari al bisogno; ma dovea bastare lo aver fatto palpare la piaga perchè altri pensasse a farmaci migliori. Invece la Signoria torse gli occhi dal male; negò la necessità d’una cura dove la quiete e la contentezza indicavano non l’infermità ma la salute; non conobbe che appunto quelle sono le infermità più pericolose dove manca perfin la vita del dolore. Non molti anni prima l’Avogadore di Comune, Angelo Querini, avea sofferto due volte la prigionia d’ordine del Consiglio dei Dieci per aver osato propalarne gli abusi e le arti illegali, con cui si